Esistono 206 Stati nel mondo, eppure le lingue scritte e parlate sono oltre 7.000. Un numero sbalorditivo, che però sembra destinato a non rimanere così alto a lungo.
L’elenco stilato dall’UNESCO funziona in modo simile a quelli di animali e piante: una lunga lista di lingue madri, lingue creole e dialetti classificate con degli indicatori che vanno da “vulnerabile” a “estinta”.
Ad essere particolarmente a rischio sono ben 3.000 lingue, che in base alle previsioni degli esperti dell’Alliance for Linguistic Diversity scompariranno completamente entro il 2100 per due fattori molto importanti: non vengono trasmesse alle nuove generazioni o non vengono parlate in maniera quotidiana.
Tutto ciò potrebbe sembrare paradossale in una società sempre più multilingue, ma di fatto a concorrere all’estinzione è anche la forte pressione esterna: l’esigenza di parlare lingue più diffuse – come l’inglese – sta lentamente ma inesorabilmente annientando lingue come il Thai Song, il Korana o l’Ingalik.
Secondo l’UNESCO, però, anche in Italia c’è da preoccuparsi. La Penisola, insieme alla Russia, ha il maggior numero di lingue considerate ad alto rischio. Nello specifico, stanno scomparendo le isole linguistiche greche in Puglia e Calabria, quelle albanesi in Sicilia, quelle croate in Molise e il töitschu, dialetto valtostano.
Critica è la situazione in Friuli e Piemonte, dove i dialetti più stretti sono ormai parlati solo dalle vecchie generazioni, mentre gravissima è quella sarda, dove stanno morendo il catalano orientale, il sassarese, il gallurese, l’algherese e buona parte del dialetto sardo.
L’unico modo per cercare di combattere questo fenomeno è conciliare le nuove esigenze linguistiche con la cultura che sta dietro ogni dialetto, cercando di ricordare che nessuna lingua è inferiore a un’altra.
Bisogna dunque tenere presente che senza parlanti nessun linguaggio può davvero sopravvivere. E che morendo, una lingua porta con sé secoli di storia, tradizioni e conoscenze.